Ascolto e disabilità a TESPI. Intervista a Michele Comite

Ascolto e disabilità a TESPI. Intervista a Michele Comite

LEONARDO DELFANTI e ANGELA FORTI | Michele Comite direttore del Collettivo Clochart ha portato a TESPI, Festival di Teatro Sociale, il suo ultimo lavoro, DEsPRESSO, in tournée, dopo una lunga gestazione di due anni, assieme all’attrice Alessandra Carraro, affetta da sindrome di down. In scena due grandi tazze da caffè e una porta rossa, luogo di attraversamento della malattia depressiva di Michele da una parte, della forza vitale e giocosa di Alessandra dall’altra.

Lo abbiamo incontrato a Jesi per tirare le somme della sua esperienza al festival a cui  ha contribuito non solo con la performance di teatro-danza ma anche col workshop Disabilità Nascoste, un accesso gratuito al percorso per diventare operatori del settore.

Dalla danza classica, alla commedia dell’arte, fino alla danza contact il tuo percorso artistico è poliedrico. Come sei arrivato a lavorare in questo ambiente di nicchia, curando progetti artistici con la disabilità?

Io non lo definirei di nicchia: non è accessibile a pochi, ma a tutti. Tantissime cooperative che lavorano con la disabilità hanno all’interno dei loro percorsi varie forme d’arte. Magari lo è per i mass media.

Io mi sono avvicinato perché, girando per l’Europa, ho potuto constatare che tutte le compagnie hanno all’interno del loro cast persone con disabilità, portatrici di forme e abilità altre che, messe in relazione ad abilità “totali” o “pseudo-totali”, creano combustioni diverse, non comuni, non banali. Così ho deciso di approfondire queste forme e ho iniziato a fare volontariato. E da lì mi si è aperto tutto un mondo, come artista e come uomo.

E da lì che è nato il Collettivo Clochart?

In realtà il collettivo è nato 23 anni fa, in forma ufficiale nel 2012.
“Clochart” perché quando vagavo per l’Europa come artista di strada avevo la possibilità di lavorare con dei clochard, per guadagnare qualche soldo. Invece di farli bere li coinvolgevo nelle mie performance e poi ci dividevamo i soldi. Così è nato Clochart: la “t” finale sta per “teatro”. È la forma che gli ho dato.

Perché nello spettacolo DEsPRESSO hai deciso di affrontare il tema della depressione?

Una volta ho letto un articolo che parlava del crescente aumento di farmaci antidepressivi somministrati a bambini e ragazzi, considerati depressi per mancanza di interesse. Quindi volevo andare in fondo a questa storia e ho iniziato a contattare psicologi, persone in depressione, persone uscite dalla depressione: assieme ad Alessandra si è quindi deciso di parlarne tramite uno spettacolo teatrale che fosse fruibile a tutti.
Il titolo DEsPRESSO nasce dal fatto che Alessandra non riesce a pronunciare la parola “depresso”. È più forte di lei: per lei la depressione non esiste. L’ho tenuto perché tocca le corde dell’ironia e permette di alleggerire il tema. Abbiamo fatto vedere lo spettacolo a persone depresse e assieme a loro abbiamo costruito un ulteriore processo creativo. Tutto ciò che è all’interno dello spettacolo nasce da questa ricerca, come la figura del ragno resa con il movimento delle dita.
Il ragno è uno degli animali che, assieme al cane nero, più è emerso dalle storie delle persone che soffrono di depressione. Se loro devono dare una forma al loro stato d’animo parlano di cane nero, di ragno che si chiude in sé stesso e che fa male. Qualcosa che piano piano ti prende e ti porta dentro una ragnatela da cui non riesci più a liberarti.
La grande bellezza viene dai bambini che reagiscono con grande profondità di pensiero: tantissimi di loro dopo la visione dello spettacolo dicono di avere degli amici affetti da depressione e ci dicono… “adesso so che cosa fare”.
Alessandra all’interno dello spettacolo, per quanto io provi ad allontanarla, rimane sempre lì. Lei ha questa fedeltà dell’amore, nell’amore. Quando non riesce a portarmi fuori dalla depressione, porta l’amore dentro: ecco perché ho scelto scenograficamente le due grandi tazze. Lei le usa per creare mondi, mondi che vengono dall’infanzia, mondi che vengono dalla spensieratezza.

Durante il workshop Disabilità Nascoste hai parlato molto del tema dell’ascolto, non solo a livello performativo ma anche umano. Cosa vuol dire per te ascoltare?

L’ascolto è capire bene quello che l’altro ti sta chiedendo. Il momento in cui la tua riflessione ti porta a capire i bisogni dell’altro, anche attraverso il silenzio. Anzi, il silenzio è fondamentale per capire l’altro, perché ci sono i movimenti degli sguardi, dei respiri, dei silenzi da ascoltare. Oggi come oggi questo ascoltare è quasi inesistente: non c’è più neanche in teatro. Prima restavo in platea per vedere l’attore da vicino; volevo vedere il suo sudore. Ora vado in alto, perché da lontano si vede meglio. Dall’alto, purtroppo, ti accorgi anche che durante lo spettacolo si accendono e si spengono continuamente luci; la stessa cosa che fa il cervello, si accende e si spegne. Nel momento in cui si accende tu stai da un’altra parte e il momento in cui si spegne tu hai già perso l’ascolto, perché l’altro ha già detto, già fatto. Come puoi comprendere uno spettacolo se sei continuamente fuori ascolto? Ecco perché gli spettacoli purtroppo non sono più vivi: anche quello degli attori è un essere vivi soltanto tra loro stessi, perché il pubblico non partecipa.
La partecipazione, quella cosa bella… Mi ricordo che anni fa, alla fine dello spettacolo, vi era un  momento in cui non c’era ancora l’applauso perché il pubblico era ancorato all’ultima immagine, oppure c’era subito un grandissimo applauso. Oggi anche l’applauso è sconnesso.
Io amo moltissimo ascoltare, è bellissimo, è magico e lo considero un gran gesto di generosità: le persone che ti sanno ascoltare sono persone generose e vanno amate per questo.

Aticolo originale: https://paneacquaculture.net/2019/02/05/ascolto-e-disabilita-a-tespi-intervista-a-michele-comite/